Michele Pennetti – Corriere del Mezzogiorno
Diciannove minuti, nessun punto, due bombe da tre stampatesi sul ferro, la sua mole di esperienza al servizio della squadra. Domenica sera, pilotando la Betaland Capo d’Orlando all’affermazione su Cantù nella prima giornata di Lega A, Gianluca Basile ha cominciato ufficialmente la sua ventunesima stagione da professionista. Quarantuno anni il prossimo 24 gennaio, il gigante di Ruvo di Puglia è l’highlander della pallacanestro italiana. La sua longevità sportiva, d’impulso, rende spontaneo il parallelo con Dino Meneghin, ritiratosi a 44 anni dopo una carriera costellata di successi. Più universale il paragone con i campioni del calcio, scavallando tra il ricordo di Dino Zoff e la cronaca impersonata da Francesco Torti. Basile, la sua è una stona dì prestigio e trionfi, di vittorie plurime artigliate in Italia, con il Barcellona, con la casacca della nazionale.
In quale angolo del suo fisico trova le energie per continuare a giocare? In quale nicchia della sua mente raccoglie le motivazioni per restare sulla breccia? «E primo aspetto è la condizione generale. Se stai bene atleticamente, se nelle testa frullano sempre tanti stimoli, diventa difficile fermarsi o immaginare di dire basta. L’importante è riuscire a gestire con sapienza il lavoro durante la settimana».
Qual è il segreto per non rimanere sopraffatti dalla carta d’identità? «Il dosaggio dei carichi di allenamento. I tempi di recupero, a quarant’anni suonati, sono immancabilmente più lunghi. Occorre forzare il giusto, senza esagerare. Bisogna usare il mestiere accumulato in una vita di basket. Il nostro è uno sport basato sulle spaziature. Con il tempo, capisci dov’è giusto posizionarsi per dare una mano ai compagni e non logorare muscoli e articolazioni».
Smettere: un’idea che non si è mai affacciata tra i suoi pensieri? «Si affaccia con frequenza, non scherziamo. Immaginate che a un orecchio abbia un angelo e all’altro a un diavolo. L’angelo, con garbo, sommessamente, mi ripete di andare avanti, che non è ancora arrivato il tempo di abbandonare il parquet. Risponde al diavolo, che dall’altra parte mi urla di farla finita, quasi impietosendosi per la mia anzianità sportiva. Alla fine, s’impone l’angelo. Però non so fino a quando potò dargli ascolto».
A quali parole ricorre l’angelo, al suo orecchio, per persuaderla a restare in campo? «La verità è una soltanto: giocare a pallacanestro mi diverte ancora tantissimo. In me resiste un grande spirito di competizione, quel gusto che agli agonisti piace apprezzare fino in fondo. Nel momento in cui il fisico mi mollerà, lascerò perdere. La squadra, Capo d’Orlando, è di aiuto nei miei confronti. E’ uno dei rari quintetti del campionato italiano che propone un basket poco americano e molto europeo, nello stile di Reggio Emilia per intenderci. Quindi, meno uno contro uno, meno iniziativa individuale, maggiore propensione a impiegare con pienezza i cinque per una più ragionata ed equa distribuzione dello sforzo».
Un fuoriclasse della sua statura, un asso che ha militato nella Bologna d’oro oppure a Barcellona, nell’Armani Milano piuttosto che in nazionale, come “sopravvive” in una piccola piazza qual è Capo d’Orlando? «Mi trovo magnificamente. E’ un ambiente ideale. Mi riporta indietro con la memoria, a quand’ero ragazzino e iniziavo a giocare nella mia Ruvo, nella mia Puglia, nella terra alla quale sono legatissimo e dove intendo tornare, visto che mia moglie è una compaesana».
L’Enel Brindisi l’ha mai cercata in modo da velocizzare le operazioni di rientro? «All’incirca un anno fa, prima che prendesse il via lo scorso campionato di Lega A, parlai a lungo al telefono con il presidente Nando Marino. Sembrava che ci fossero i presupposti per un accordo. Invece, dopo qualche giorno, Marinò mi richiamò riferendo che, per questioni burocratiche, non poteva tesserarmi. Doveva andare così, il mio ritomo in Puglia è solo ritardato».