In 4 gare ha allontanato i siciliani dall’ultimo posto «Se fossi arrivato prima avremmo raggiunto i playoff»
Salvatore Pintaudi – Gazzetta dello Sport
«Capo? Where is it?». Già, Capo d’Orlando dov’è? Non certo a due passi dall’Illinois. Quindi, per soddisfare la curiosità di Ryan Boatright ecco Google. «L’Italia per me era uno stato dell’Europa. Su internet ho visto foto e filmati di questo splendido posto, mi è sembrato subito l’ideale. Ho chiamato mamma, le ho detto che sarei venuto a giocare qui». I grandi occhi di Ryan Boatright si illuminano mentre parla della sua prima esperienza lontano dagli States. Ancora di più quando c’è in mezzo la famiglia. «Mio nonno ha 5 figlie femmine, io sono il più grande di 4 fratelli (Michael 19 anni, Dasia e De’Ahjah di 14 e 11, ndr.), sono stato il primo uomo della famiglia. Mamma Tanesha divorziata, ha lavorato tantissimo per portarci avanti». Ryan ha un legame fortissimo con i suoi. Il «fenomeno» dell’Orlandina: 94 punti in 4 gare (3 vittorie 1 sconfitta), mentre parla, scatta foto e manda video con Whatsapp in America.
«Mia madre e la mia famiglia mi hanno fatto crescere da leader, devo ricambiare la loro fiducia, per prima cosa li porterò a fare un bel viaggio in Italia, qui in Sicilia. Le videochiamate ci fanno sentire più vicini, certo è la prima volta che lascio l’America, ma ho un obiettivo e per raggiungerlo so che devo fare qualche sacrificio». Nato ad Aurora nell’Illinois il 27 dicembre del 1992, dopo aver vinto con Connecticut il titolo Ncaa, firma un biennale con Brooklyn e dopo le Summer League 2015, passa ai Pistons che però lo piazzano nella D-League a Grand Rapids. L’Orlandina quando è arrivato era ultima (oggi è 13esima a +4 su Torino).
Perché questa scelta?
«Con me al College c’era Alex Oriakhi, gli ho subito telefonato per avere informazioni sulla società. Non ho avuto esitazioni. Mi ha detto che la serie A è una lega ricca di talenti, una vetrina importante: non si è sbagliato. Qui conto di migliorare il mio basket, di imparare situazioni tattiche che mi torneranno utili. Nella vita devi credere in qualcosa altrimenti non vali nulla. Non mi sento un leader, ma quando vado in campo sono convinto di poter giocare meglio di qualsiasi avversario. Oggi posso dire che se fossi arrivato prima, con questa squadra, avremmo raggiunto i playoff».
Come ha cominciato a giocare a basket?
«Nella zona dove sono nato e cresciuto, o pratichi uno sport oppure finisci per strada. Mio cugino, Arin Williams, è stato assassinato con un colpo di pistola alla testa nel bagno di un ristorante, era un fratello per me. Il tatuaggio che ho sul collo è la sua faccia. Lo sport per noi non è un gioco, ma uno stile di vita. Avevo cominciato con il football perché lo praticava mio nonno, volevo la Nfl, l’amore per la pallacanestro ha però superato quello per il football. Sono stato il primo della famiglia ad entrare in un college, piansero tutti quando mi chiamarono».
Non si sente un leader ma parla come se lo fosse.
«In spogliatoio ci sono personalità forti e questo è un bene. Un leader è il capitano Nicevic, ma anche gli altri veterani prendono parola. L’esperienza internazionale come quella di Basile, in campo fa la differenza. Io devo continuare a giocare come ho sempre fatto, prendermi le mie responsabilità».
Capo cos’ha di speciale?
«La gente è “lovely” (splendida, ndr.), affettuosa, gentile. Un tipo d’amore che non conoscevo. Esco di casa e i bambini mi chiedono di giocare con loro. Mi fermo al bar e mi offrono un bicchiere di vino che io preferisco alla Coca Cola. Faccio una passeggiata sul lungomare e mi reclamano per un selfie. Sono a casa, uno di loro».
L’Nba è il suo obiettivo?
«Sono un atieta che lavora duro. Da noi se sei uno qualsiasi non vai da nessuna parte».